Cooperativa e fallimento

Cassazione, sentenza 24 marzo 2014, n. 6835, sez. I civile

Il Commento

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. UGO VITRONE- Presidente –

Dott. SERGIO DI AMATO – Consigliere

Dott. RENATO BERNABAI – Consigliere

Dott. CARLO DE CHIARA – Consigliere

Dott. LOREDANA NAZZICONE - Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

sul ricorso 8826-2012 proposto da:

ALFA SOCIETA' COOPERATIVA PER AZIONI in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, …, presso l'avvocato …, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

ricorrente

contro

FONDAZIONE E.N.P.A.I.A. ENTE NAZIONALE DI PREVIDENZA PER GLI ADDETTI E GLI IMPIEGATI IN AGRICOLTURA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, …., presso l'avvocato …, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

CURATELA FALLIMENTO ALFA S.P.A., in persona del Curatore avv … elettivamente domiciliata in ROMA, …, presso l'avvocato …., che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato …, giusta procura a margine del controricorso;

controricorrenti

avverso la sentenza n. 247/2012 della CORTE D'APPELLO di BARI, depositata il 08/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2014 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società cooperativa per azioni ALFA propone ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Bari del 19 febbraio 2012, la quale ha respinto il reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Foggia del 28 settembre 2011, che, nella contumacia della società, ne ha dichiarato il fallimento, su istanza dell'Ente Nazionale di Previdenza per gli addetti e gli impiegati in agricoltura (ENPAIA), per contributi non versati, pari ad € 29.219.

La corte territoriale ha ritenuto infondata l'allegazione, peraltro operata solo in appello, dell'insussistenza della qualità di imprenditore commerciale della fallita, alla luce degli elementi di fatto caratterizzanti la sua attività ed accertati in giudizio.

Circa il dedotto mancato superamento dell'importo di € 30.000 per debiti scaduti, previsto dall'art. 15 l. fall., la sentenza impugnata osserva, inoltre, che il credito vantato ammontava ad € 29.219, oltre rivalutazione, interessi e sanzioni dal 2006, sino ad assurgere quindi alla somma di € 35.719 in epoca prefallimentare, senza considerare le sanzioni; mentre la relazione ex art. 33 l. fall. ha palesato debiti certi per almeno € 162.481 ed incerti per € 501.081, oltre ad ulteriori rilevanti debiti previdenziali, tributari e bancari.

Lo stato di insolvenza, infine, è stato ravvisato in ragione dei debiti non onorati, in una con la considerazione che, ove pure l'assunto del versamento completo ai soci degli incassi corrispondesse a realtà, proprio per questa ragione mai i debiti accumulati avrebbero potuto essere abbattuti; come confermato, del resto, dall'accertato rilascio di una fideiussione cambiaria richiesta dalla banca a garanzia del piano di rientro e dalla dismissione di alcuni cespiti minori.

Il ricorso è affidato a quattro motivi. Resiste la curatela con controricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - Con il primo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell'art. 1 l. fall., negando la propria qualità di imprenditore commerciale, in quanto nei paesi UE, in forza del Regolamento CE n. 2201 del 1996 e successivi, la commercializzazione del pomodoro avviene mediante obbligatorio "conferimento" del prodotto, da parte dei singoli produttori, alle industrie di trasformazione attraverso cooperative o associazioni di produttori. Tali cooperative operano in nome e per conto dei soci coltivatori diretti, agiscono con mutualità e senza scopo di lucro, e ad esse è affidata la funzione di controllare il rispetto dell'obbligo di pagamento del prezzo minimo, prezzo che viene pagato dal trasformatore tramite bonifico bancario (Reg. CE n. 504 del 1997, Reg. CE n. 449 del 2001, e successivi), quali condizioni dei contributi comunitari. Lo statuto della ricorrente prevede lo scopo di promuovere la concentrazione dell'offerta, ed a tal fine essa vende per conto dei soci e riscuote per loro conto il prezzo; il patrimonio è costituito solo dal capitale; non distribuisce utili. Gli importi delle fatture di acquisto dai soci e l'importo di vendita emesse dalla società, pertanto, coincidono.

Con il secondo motivo, lamenta la violazione degli art. 15 e 18, decimo comma, l. fall., essendo l'esposizione debitoria inferiore ad € 30.000, posto che il credito vantato ammonta solo ad € 29.219,76.

Con il terzo motivo, censura la motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria, avendo il Tribunale di Foggia dichiarato il fallimento della società, sebbene l'ente previdenziale in forza del medesimo credito avesse già chiesto, con ricorso dell'aprile 2009, la dichiarazione dello stato di insolvenza e, solo in subordine, il fallimento della società, e tale ricorso fosse stato respinto.

Con il quarto motivo, deduce la violazione dell'art. 5 l. fall., per avere la sentenza impugnata ravvisato l'insolvenza della società, nonostante la situazione patrimoniale e la solida reputazione, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbilancio negativo.

2. - Il primo motivo è infondato.

La corte d'appello ha rilevato come, da un lato, per la prima volta nel giudizio di reclamo sia stata svolta la deduzione circa l'insussistenza della qualità di imprenditore commerciale in capo alla cooperativa; e, dall'altro, che non è stata comunque, neppure in sede di reclamo, fornita la prova dell'attività puramente mutualistica e non imprenditoriale della società.

2.1. - Sotto il primo profilo, questa Corte ha già chiarito che l'impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, nei procedimenti in cui trova applicazione la riforma di cui al d.lgs. n. 169 del 2007, che ha modificato l'art. 18 l. fall., ridenominando tale mezzo come «reclamo» in luogo del precedente «appello» in coerenza con la natura camerale dell'intero procedimento, è caratterizzata, per la sua specialità, dalla possibilità di riesaminare le questione, onde non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli art. 342 e 345 c.p.c. È stato, infatti, affermato che il fallito, addirittura allorché non costituito avanti al tribunale, può indicare per la prima volta in sede di reclamo i mezzi di prova di cui intende avvalersi, al fine di dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui all'art. 1, 2° comma, l. fall. (Cass., sez. VI, ord. 6 giugno 2012, n 9174; Cass., sez. I, 5 novembre 2010, n. 22546).

Il principio, così enunciato con riguardo alle nuove prove, va esteso anche alle allegazioni delle parti, che logicamente precedono la deduzione di quelle.

Ne discende che resta privo di conseguenze processuali l'avere la società fallita rilevato l'insussistenza della qualità di imprenditore commerciale solo in sede di reclamo.

2.2. - Sotto il secondo profilo evidenziato dalla sentenza di appello, concernente la concreta sussistenza dei requisiti di fallibilità, va, in primo luogo, ricordato che, nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, grava sull'istante l'onere di provare gli elementi integranti il fatto costitutivo, ovvero la qualità di imprenditore commerciale del soggetto da dichiararsi fallito e lo stato di insolvenza; mentre grava sul fallendo la prova degli elementi impeditivi, estintivi e modificativi, quali la sussistenza delle esclusioni legate al limite dimensionale di fallibilità.

Per l'art. 1 l. fall., sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, come parimenti prevede l'art. 2221 c.c., che fa salve le disposizioni delle leggi speciali; mentre l'art. 2545 terdecies, primo comma, seconda parte (come già l'art. 2540, nel testo anteriore alla riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003) ammette il fallimento delle cooperative che svolgano attività di imprenditore commerciale, stabilendo che esse sono sottoposte "anche" a fallimento, oltre che a liquidazione coatta amministrativa, secondo il criterio discretivo della prevenzione (criterio richiamato pure dall'art. 196 l. fall.).

Se l'impresa cooperativa, per le disposizioni sopra richiamate, può essere soggetta a fallimento in caso d'insolvenza, al fine di giungere all'esclusione di quel regime potrebbe rilevare o la natura agricola dell'impresa, o la mutualità della stessa, tale da escludere la natura di impresa commerciale.

Sotto il primo profilo, le cooperative agricole sono individuate secondo i criteri di cui agli art. 2195 e 2135 c.c., atteso il richiamo ad essi implicitamente operato dagli art. 2221, 2545 terdecies c.c. e 1l. fall.; ma non è questa l'allegazione della ricorrente.

2.3. - La società ricorrente, invero, ha negato la qualità di imprenditore fallibile, per avere essa finalità mutualistiche.

Tuttavia, osserva il collegio come, (a) da un lato, l'impresa commerciale non postula il perseguimento di un lucro soggettivo e, (b) dall'altro lato, la cooperativa che abbia fini mutualistici (anche a mutualità prevalente secondo la nozione introdotta dal d.lgs. n. 6 del 2003) non è per ciò solo sottratta a fallimento.

a) Per la qualificazione di un'impresa come commerciale, ciò che rileva, accanto all'autonomia gestionale, finanziaria e contabile, è invero il perseguimento di un cd. lucro oggettivo, ossia il rispetto del criterio di economicità della gestione, quale tendenziale proporzionalità di costi e ricavi, in quanto questi ultimi tendano a coprire i primi (almeno nel medio-lungo periodo). La nozione di imprenditore ai sensi dell'art. 2082 c.c. va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all'attività economica organizzata che sia ricollegabile a un dato obiettivo inerente all'attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, il quale riguarda il movente soggettivo che induce l'imprenditore ad esercitare la sua attività (cfr., ad esempio, Cass. 5 giugno 1987, n. 4912, con riguardo a società esercente in regime di concessione un'attività di trasporto, sebbene assoggettata ad un peculiare regime di prezzi e costi).

Persino il fine altruistico, infatti, non pregiudica il carattere dell'imprenditorialità dei servizi resi, qualora quest'ultimi vengano organizzati in modo che i compensi per essi percepiti siano adeguati ai relativi costi, onde questa Corte ha affermato la natura commerciale di un'attività, anche se svolta in modo che i compensi non eccedano i costi, dato che ai fini della valutazione del carattere imprenditoriale di un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o servizi rimangono giuridicamente irrilevanti sia il perseguimento o no di uno scopo di lucro, sia il fatto che i proventi siano destinati ad iniziative connesse con gli scopi istituzionali dell'ente (Cass., sez. lav., 19 agosto 2011, n. 17399, sull'attività di gestione di una struttura alberghiera da parte di un ente religioso; Cass., sez. III, 19 giugno 2008, n. 16612).

b) Pertanto, anche la natura commerciale dell'attività svolta da una società cooperativa deriva esclusivamente dalla circostanza obiettiva che essa eserciti (o abbia esercitato) questo tipo di attività; l'indagine sull'accertamento del predetto scopo, quindi, non può ritenersi formalmente preclusa dal fine mutualistico della cooperativa, posto che l'attività commerciale non è incompatibile con la finalità mutualistica.

Non è, invero, il fine mutualistico che esclude in sé la natura di` imprenditore commerciale di una cooperativa, dato che l'art. 2545 terdecies, come prima l'art. 2540 c.c., ne prevede espressamente la dichiarazione di fallimento, così riconoscendo che queste possono svolgere anche un'attività commerciale (cfr. Cass., sez. I, 28 luglio 1994, n. 7061).

Questa Corte ha precisato da tempo (Cass., sez. I 8 settembre 1999, n. 9513) come «lo scopo mutualistico proprio delle cooperative può avere gradazioni diverse, che vanno dalla cosiddettamutualità pura, caratterizzata dall'assenza di qualsiasi scopo di lucro, alla cosiddetta mutualità spuria che, con l'attenuazione del fine mutualistico, consente una maggiore dinamicità operativa anche nei confronti di terzi non soci, conciliando così il fine mutualistico con un'attività commerciale e con la conseguente possibilità per la cooperativa di cedere beni o servizi a terzi a fini di lucro». Dunque, l'esercizio di un'impresa commerciale ed il relativo intento di lucro non sono inconciliabili con lo scopo mutualistico proprio della cooperativa, essendosi ormai «superata l'immedesimazione tra società e scopo di lucro da un lato e cooperativa ed interesse mutualistico dall'altro. Dopo aver ammesso che vi sono società senza scopo di lucro e consorzi in forma societaria (art. 2615 ter come modificato dalla legge 10 maggio 1976, n. 377), occorre rilevare come la società cooperativa può ben avere anche uno scopo di lucro» (Cass., sez. I, 16 maggio 1992, n. 5839; v. pure Sez. V, 9 ottobre 2000, n. 13423).

In coerenza con tali principi, questa Corte ha, pertanto, qualificato come imprenditore commerciale la cooperativa edilizia che venda a terzi gli alloggi realizzati, potendo la natura commerciale dedursi dalla presenza di elementi anche presuntivi che evidenzino lo svolgimento da parte della cooperativa di «attivitàspeculativa esorbitante dal suddetto scopo» (così proprio una delle sentenze citate dalla ricorrente: Cass., sez. I, 16 maggio 1992, n. 5839), o che ceda gli alloggi sul mercato (Cass., sez. I, 28 luglio 1994, n. 7061) o che produca spettacoli teatrali con utilizzazione delle prestazioni artistiche dei soci, destinando gli utili ai medesimi quale riserva disponibile e a fondi di assistenza e beneficenza per i soci (Cass., sez. I, 18 giugno 1980, n. 3856; v. pure Cass., sez. un., 23 gennaio 1970, n. 144 e 10 marzo 1969, n. 766).

Dal suo canto, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea (cfr. le sentenze 3 marzo 2011, C-437/09, Ag2R; 29 settembre 2011, C-521/09, Elf Aquitaine; 29 marzo 2011, C-201/09, 216/09, ArcelorMittal) ha affermato, nell'ambito del diritto dell'Unione in materia di concorrenza, come la nozione di "impresa" comprenda qualsiasi entità che eserciti un'attività economica, indipendentemente dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento, ed intesa tale attività come quella «consistente nell'offrire beni o servizi in un determinato mercato».

Come si è ritenuto per il consorzio, il quale deve considerarsi imprenditore perché esercita una fase dell'attività delle imprese consorziate o un'impresa ausiliaria, pur costituendosi fra le singole imprese rapporti associativi di tipo mutualistico, da cui derivano vantaggi realizzati grazie all'organizzazione comune (in tema di fallimento del consorzio, cfr. Cass., sez. I, 3 giugno 2010, n. 13465; Cass., sez. lav., 20 ottobre 2011, n. 21818), e come per le associazioni e le fondazioni, che possono esercitare attività d'impresa, pur mantenendo come fine il perseguimento di uno scopo altruistico (in tema, Cass., sez. I, 24 marzo 2011, n. 6853; Cass., sez. I, 16 marzo 2004, n. 5305), così anche con riguardo alla società cooperativa può dirsi che lo scopo di lucro non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore, essendo individuabile l'attività di impresa, tutte le volte che sussista una obiettiva economicità dell'attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi. Tale requisito può ben essere presente anche in una società cooperativa, che pure operi solo nei confronti dei propri soci; ed, in tal caso, essa si assoggetta allo statuto dell'impresa, che comprende il fallimento, quale strumento di soluzione e superamento dell'insolvenza che abbia origine in un'iniziativa imprenditoriale.

In conclusione, lo scopo mutualistico di una società cooperativa non è inconciliabile con quello di lucro, quale obiettiva economicità della gestione, potendo i due fini coesistere ed essere rivolti al conseguimento di uno stesso risultato: pertanto, ai fini dell'applicabilità dell'art. 2545 terdecies cod. civ., che prevede la possibilità del fallimento delle cooperative, per l'accertamento della sussistenza del fine predetto occorre avere riguardo alla struttura ed agli scopi di essa.

2.4. - La cooperativa in esame si inquadra nell'ambito della disciplina comunitaria (Regolamenti reg. CE n. 2200/1996 ed in seguito n. 1182/2007) volta a favorire, mediante rapporti di tipo associativo, la concentrazione dell'offerta di prodotti agricoli, al fine di controbilanciare l'insufficiente dimensione delle imprese agricole rispetto alla controparte industriale. Di qui, le disposizioni volte a promuovere le cd. OPA, organizzazioni di produttori in agricoltura.

Sebbene tali organizzazioni di produttori, come evidenziato dalla ricorrente, siano dunque costituite anche nel perseguimento di fini strategici comunitari, esse operano mediante l'immissione dei prodotti sul mercato.

Al riguardo, sia pure con riferimento al profilo del credito del socio coltivatore diretto verso la cooperativa che commercializza il prodotto agricolo finito conferito dai soci, questa Corte (Cass., sez. I, 14 gennaio 2008, n. 598), nell'escludere che esso goda del privilegio di cui all'art. 2751 bis, n. 4, c.c., ha avuto occasione di sottolineare la natura di questo rapporto, in cui il socio conferisce prodotti alla cooperativa (in quel caso, una cooperativa vitivinicola a r.l.) mediante un peculiare negozio, in cui la compravendita viene a innestarsi su di un autonomo contratto associativo che, da un lato, obbliga il coltivatore diretto al conferimento dei prodotti per il perseguimento dello scopo sociale e, dall'altro, lo rende partecipe dello scopo dell'impresa collettiva facendogli assumere una quota del rischio di impresa e attribuendogli correlativamente una serie di poteri e diritti (di concorrere alla formazione della volontà della società, di controllo sulla gestione sociale, il diritto ad una quota degli utili) e specifici vantaggi, fra cui in particolare quello di poter collocare la propria merce sul mercato in condizioni più favorevoli; da cui la decisione della Corte di negare un inammissibile soddisfacimento preferenziale sul patrimonio della società. La sentenza, pertanto, presuppone la natura imprenditoriale della cooperativa.

2.5. - Nella specie, la corte d'appello ha verificato la sussistenza di positivi indici della natura commerciale dell'attività svolta, consistenti nella forma legale di s.p.a., nell'esistenza di una partita i.v.a., nell'oggetto sociale volto alla commercializzazione verso terzi di prodotti agricoli conferiti dai soci, dei quali la società incassa il prezzo, nell'esistenza di un rapporto di lavoro con un dipendente.

Di fronte a tali elementi, la decisione impugnata osserva che non è stata fornita alcuna prova circa la mancanza dei requisiti soggettivi di fallibilità previsti dalla legge, in quanto le due sentenze delle commissioni tributarie locali del 2010 e del 2011, le quali sono giunte alla conclusione del versamento integrale ai soci del prezzo ricavato dalla vendita dei prodotti, non sono a tal fine sufficienti, perché non provano che tutte le operazioni di vendita ed incasso, eseguite dalla società, siano sempre state seguite dal completo versamento del denaro ai soci.

Dunque, nessun vizio di violazione di legge sussiste; né la ricorrente denuncia il vizio di motivazione derivante dal mancato esame della contabilità prodotta in atti.

In ogni modo, non è permesso alla Corte di cassazione di ripetere gli accertamenti in fatto già operati, in quanto, di fronte ad operazioni a natura oggettivamente imprenditoriale congruamente motivate, mediante un ragionamento immune da errori o da vizi logico giuridici, non è possibile, in questa sede, riesaminare il merito dei singoli elementi presuntivi.

L'accertamento dei requisiti necessari per poter qualificare un determinato soggetto imprenditore commerciale, ai fini della sua assoggettabilità al fallimento, rientra nei compiti istituzionali del giudice di merito, con la conseguenza che il risultato della indagine sfugge al sindacato di legittimità, mentre è censurabile in cassazione soltanto la motivazione addotta per giustificare la conclusione adottata, sia sotto il profilo dell'adeguatezza e della coerenza logica, sia sotto il profilo della conformità ai principi di diritto (Cass., sez. I, 24 febbraio 1995, n. 2107; e cfr. sez. I, 4 marzo 2005, n. 4784, sul piccolo imprenditore; 28 marzo 2001, n. 4455, sulla cessazione dell'attività).

3.- Il secondo ed il terzo motivo, da esaminare congiuntamente in quanto pongono la medesima questione - ora sotto il profilo della violazione degli art. 15 e 18, decimo comma, l. fall. ed ora del vizio di motivazione - sono infondati.

La sentenza impugnata ha accertato, senza che nessuna contestazione o confutazione contenga il ricorso al riguardo, che l'esposizione debitoria era pari ad € 29.219,76 per sola sorte capitale, ascesa a ben oltre la soglia limite di € 30.000,00 con gli accessori.

Quanto alla sussistenza di una precedente istanza di fallimento per il medesimo credito previdenziale, in precedenza disattesa, basti ricordare che costituisce orientamento costante della Corte quello secondo cui il decreto di rigetto del ricorso per fallimento non è idoneo a passare in giudicato trattandosi di provvedimento non definitivo che non decide su diritti (Cass., sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1776; 21 dicembre 2010, n. 25818; 14 ottobre 2009, n. 21834; 7 dicembre 2006, n. 26181).

4.- Il quarto motivo, che sotto la prospettazione di violazione dell'art. 5 l. fall. censura, nella sostanza, la motivazione della sentenza impugnata, per avere ravvisato l'insolvenza della società nonostante la situazione patrimoniale e la solida reputazione, non coglie nel segno.

La corte d'appello ha accertato l'esistenza di una pluralità di debiti scaduti e non pagati; al riguardo, nessuna violazione di legge dunque sussiste, mentre esula dalla presente sede ogni indagine sulla sussistenza del presupposto, trattandosi di questione di fatto sottratta alla cognizione del giudice di legittimità.

5. - Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del d.m. 12 luglio 2012, n. 140.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite del giudizio di legittimità, che liquida, in favore di ciascuno dei controricorrenti, in € 3,200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2014.

Il Consigliere est. LOREDANA NAZZICONE

Il Presidente UGO VITRONE

 

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